La biodiversità è l'unica soluzione che può salvare l'umanità dal bisogno alimentare. Omologare i consumi crea pericoli, e i precedenti ci sono.
La biodiversità è l'unica soluzione che può salvare l'umanità dal bisogno alimentare. Omologare i consumi crea pericoli, e i precedenti ci sono.
La biodiversità può salvare il mondo dalla fame e dai pericoli delle carestie? Certamente. I precedenti parlano chiaro.
Nel 1840, all'epoca della carestia irlandese, la peronospora distrusse la dieta base di un terzo della popolazione, creando oltre un milione di morti.
Nel 1970 una infezione delle foglie del mais distrusse un quarto del raccolto statunitense.
A partire dal 2006 il virus diffuso negli allevamenti suini della Cina ha causato la morte di 45 milioni di animali.
Lo scorso anno la ruggine del grano nel Sud Italia ha causato la perdita del raccolto più grande degli ultimi 50 anni.
E solo pochi mesi la ruggine del caffè sta decimando le piantagioni in Costa Rica, Guatemala e Honduras.
In agricoltura la dipendenza da un numero limitato di specie aumenta esponenzialmente la vulnerabilità. La perdita del raccolto di grano nel Sud Italia si è verificata perchè viene coltivato ovunque lo stesso clone di grano. Stessa cosa per il mais ed il caffè.
Secondo la FAO il 75% del cibo mondiale deriva da 12 specie vegetali e 5 animali.
Solo l'1% delle specie commestibili vegetali viene coltivato e consumato dall'uomo.
Quasi il 60% delle calorie vegetali derivano da grano, mais e riso.
Tutto ciò è evidente anche sugli scaffali dei negozi e dei supermercati. Nelle corsie possiamo trovare frutta o verdure esotica, ma la dieta di base è sempre più uniforme, e fa parte della tendenza generale verso la standardizzazione. Ad esempio, il 90% delle vacche che producono il nostro latte, formaggio, gelato e yogurt appartiene esclusivamente a un’unica razza, la Frisona, che garantisce una resa di latte altissima (con grandi controndicazioni come riportiamo nel nostro post sul latte).
Tutto ciò è l’effetto di un sistema agricolo industrializzato che privilegia la quantità e le alte rese. Questo sistema ha contribuito ad alleviare la fame di certe aree del mondo; tuttavia, piantagioni monovarietali e allevamenti uniformi hanno ridotto la capacità delle piante e degli animali di rispondere ai cambiamenti ambientali (un parassita o una malattia possono distruggere tutto, scenario che è ulteriormente esasperato dal cambiamento climatico). E, come la storia ha già dimostrato più volte, questo modello non garantisce la sicurezza alimentare.
In tutto il mondo produciamo più calorie di quelle sufficienti ad alimentare la popolazione del pianeta, così come i famosi 10 miliardi che saremo nel 2050 e che rappresentano lo spauracchio di tutti.
Il problema è l'accesso al cibo e la sua distribuzione.
Contro l'insicurezza alimentare non serve coltivare sempre di più della stessa specie, aumentiamo solo i rischi, serve creare maggiore diversità e resilienza in ciò che coltiviamo.
Significa andare oltre la dieta standard che ci viene imposta dalle multinazionali; riscopriamo alimenti sconosciuti ed abbandonati perchè capaci di rese industriali minori, ma molto più ricchi di nutrienti.
In questa Giornata Internazionale della Biodiversità, abbiamo l’opportunità di celebrare non solo ciò che abbiamo, ma ciò che siamo. Il cibo, infatti, è storia, memoria e identità. La sua diversità, a tutti i livelli, aumenta la nostra capacità di rispondere alle sfide.
Fonte: Articolo tratto dall'intervento di Simran Sethi, membro dell'Institute for Food and Development Policy, pubblicato su Fondazione Slow Food.